Non
            era un uomo da lamentele, polemiche, piagnistei demoralizzazioni, ma
            un combattente tenace, sereno e leale 
            In
            un articolo su Media 2000 pubblicato un paio d’anni fa Pier
            Giorgio Perotto osservava che gli antichi romani tramandarono ai
            posteri i nomi dei loro capi – re, dittatori, imperatori – dei
            condottieri, di poeti e scrittori, ma si dimenticarono dei molti
            ingegneri che progettarono e realizzarono opere immense e durature,
            come edifici, monumenti, teatri, strade, acquedotti. 
            Perotto
            non era un uomo da lamentele, polemiche, piagnistei,
            demoralizzazione, ma un combattente tenace, sereno e leale; così
            non approfondì molto quell’osservazione. Io che sono tanto
            pessimista quanto Perotto era ottimista e che un giorno confessai su
            Media 2OOO di soffrire per una carenza nel sangue di quell’ormone
            chiamato “felicitina” che consente la felicità degli uomini
            nonostante la loro condizione di uomini, sento quella dimenticanza
            degli antichi romani come un simbolo della predilezione italiana per
            la cultura umanistica rispetto a quella scientifica, come un sintomo
            di una scarsa vocazione per l’innovazione di ogni tipo e in
            particolare per l’innovazione tecnologica e industriale.
            Penso
            che la storia di Pier Giorgio Perotto possa essere ripercorsa con
            questa chiave di lettura. 
            II
            ricercatore accademico.
            Nel
            1968 il sottoscritto, che era assistente alla cattedra di
            Elettrotecnica e avrebbe dovuto occuparsi di altre cose, propose a
            una rivista scientifica un articolo ove si enunciava e dimostrava un
            teorema di logica. Era un risultato di modesta importanza
            scientifica che prometteva una qualche utilità nel progetto di
            calcolatori, ma che si rivelerà poi di nessuna rilevanza
            applicativa. Comunque, i revisori della rivista bocciarono quell’articolo
            perchè quel teorema era noto, essendo stato dimostrato dal grande
            logico americano Quine, e mi rimandarono alle ”Transactions on
            Electronic Computers”, che non conoscevo pur essendo quella la più
            importante rivista internazionale dedicata alla scienza del
            calcolatore. Corsi in biblioteca e nel primo numero della rivista
            che sfogliai trovai l’articolo di un italiano che non conoscevo,
            Pier Giorgio Perotta.
            La
            lettura di quell’articolo, che mi colpi per l’ingegnosità della
            tecnica descritta, mi riempì di entusiasmo e mi indusse ad
            abbandonare l’elettromagnetismo e la relatività di cui mi stavo
            occupando per buttarmi nell’informatica. Mi sono domandato
            soltanto oggi, volendo scrivere questo articolo, quali fossero le
            ragioni dell’interesse di Perotto
            per il riconoscimento ottico di caratteri, ossia per la lettura
            automatica di documenti cartacei.
            La
            questione mi è stata chiarita da un caro amico, l’ingegner
            Filippo Demonte, che dal ’63 al ’70 prosegui la ricerca di
            Perotto sui lettori ottici arrivando sino alla realizzazione dei
            prototipi industriali. II disegno di Perotto, che dirigeva in quegli
            anni l’Ufficio Apparecchiature Elettroniche e Meccaniche per la
            Produzione” dell’Olivetti, era molto ampio e ambizioso, essendo
            finalizzato alla realizzazione di una famiglia completa di apparati
            per l’automazione dell’ufficio. Accanto al ”desk top
            computer”, ossia al primo personal computer della storia, chiamato
            ”la perottina”, si svilupparono le macchine contabili
            ”Auditronic” e due linee di lettori di caratteri, una ottica e
            una magnetica. Oltre a Demonte, collaborarono a quei progetti gli
            ingegneri Del Sante, Rebaudengo, Piol, Ponzano, Mercurio, Faggian, e
            il professor Sce che forniva consulenza matematica su tutti i
            progetti. 
            Il
            progetto del lettore ottico di caratteri fu chiuso nel ’70, perchè
            quel prodotto
            avrebbe avuto un costo industriale dell’ordine di 30 milioni per
            unità, un valore proibitivo per sperare in un successo sul mercato.
            La lettura ottica di caratteri costituisce ancora oggi un problema
            tecnico molto difficile, mentre le soluzioni alternative della
            lettura magnetica e della trasmissione elettronica via cavo o etere
            erano allora, e sono ancora oggi, molto più semplici ed economiche.
            
            Il
            successo scientifico-tecnico di quel progetto, anche se non coronato
            da un corrispondente successo industriale, dimostrava la vocazione
            di Perotto per l’innovazione più avanzata e più rischiosa, e l
            attitudine alla ricerca scientifica anche accademica.
            Un’attitudine che ben si sposava con l’amore
            dell’insegnamento, come dimostrato dai molti anni di incarico
            universitario presso il Politecnico di Torino e, successivamente,
            dalla presidenza di Elea, l’importante società di formazione del
            gruppo Olivetti. 
            L’innovatore
            industriale. Il giovane ingegner Perotto entra in Olivetti nel 1958,
            dopo un breve periodo di lavoro passato al Politecnico di Torino,
            come assistente del professor Ferrari, e, successivamente, in FlAT. 
            Nonostante
            la giovane età gli viene assegnato un ruolo importante nel gruppo
            di progettisti guidato dall’ingegner Mario Tchou, figlio
            dell’ambasciatore cinese a Roma, che Adriano Olivetti ha reclutato
            dalla Columbia University. Quel gruppo è stato costituito a Pisa
            pochi anni prima, in stretta collaborazione con l’Università di
            Pisa per sviluppare i primi calcolatori elettronici italiani. E’
            stato Enrico Fermi a consigliare quell’avventura per impiegare il
            contributo di 150 milioni (qualche miliardo di adesso) che
            generosamente i comuni di Pisa, Lucca e Livorno hanno versato per la
            costruzione di un elettrosincrotrone, che si e poi deciso di
            realizzare a Frascati. L’accordo stipulato dall’Olivetti con
            l’Università di Pisa prevedeva dapprima la costituzione di un
            gruppo misto di ricercatori e progettisti accademici e industriali
            e, successivamente, la costruzione di un calcolatore scientifico
            presso l’università (la C.E.P., o Calcolatrice Elettronica
            Pisana) e di un calcolatore commerciale presso i laboratori
            industriali dell’Olivetti. 
            Dopo
            la fase di studio congiunto, il laboratorio dell’Olivetti è stato
            trasferito a Borgolombardo, alle porte di Milano, ove si completano
            i prototipi dei primi calcolatori, l’ELEA 9001 e, successivamente,
            l’ELEA 9003, il primo calcolatore interamente transistorizzato
            della storia. L’ELEA 9003 è probabilmente il più avanzato del
            mondo dal duplice punto di vista dell’architettura del sistema e
            della tecnologia impiegata. Inoltre, I’azienda sta operando una
            radicale trasformazione della propria vocazione industriale,
            avviando la progettazione e la produzione di stampanti, lettori e
            perforarori di nastri e schede, fatturatrici, convertitori. 
            Sfortunatamente,
            nel 1960 muore Adriano Olivetti, I’apostolo della conversione da
            azienda meccanica ad azienda elettronica, e l’anno successivo
            Mario Tchou perde la vita sulla terza corsia dell’autostrada
            Milano-Torino. Le spese sostenute per entrare nel nuovo comparto
            produttivo e l’investimento finanziario affrontato per acquistare
            l’americana Underwood
            che avrebbe dovuto facilitare l’ingresso nel mercato americano
            portano l’indebitamento a 200 miliardi di lire e inducono il
            comitato di risanamento e il consiglio di amministrazione alla
            chiusura delle attività elettroniche e al rientro nel settore della
            meccanica. Così, nel ’64 l’intero settore elettronico viene
            ceduto alla General Electric. 
            Scriverà
            36 anni dopo Pier Giorgio Perotto: ”La cessione della divisione
            elettronica Olivetti maturò – in tragica e assurda coincidenza
            con l’avvio della rivoluzione microelettronica mondiale – per la
            precisa determinazione dei poteri forti della finanza e
            dell’industria nazionale ad uccidere l’iniziativa, nella totale
            indifferenza delle forze politiche. Ricordo perfettamente una
            dichiarazione del professor Valletta (presidente della Fiat e
            ispiratore del gruppo di intervento che all’inizio del 1964 prese
            le redini dell’Olivetti) a proposito della crisi: ”La società
            di Ivrea e strutturalmente solida e potrà superare senza grandi
            difficoltà il momento critico. Sul suo futuro pende però una
            minaccia, un neo da estirpare: l’essersi inserita nel settore
            elettronico, per il quale occorrono investimenti che nessuna azienda
            italiana può affrontare”. 
            Non
            ci volle molto a capire, quando il nuovo management si insediò ai
            comandi, quale sarebbe stata la sorte dell’elettronica. Non fu
            detto nulla di ufficiale, ma la strategia fu quella di un rilancio
            generale di tutti i prodotti meccanici; e la cosa fu pensata in
            grande stile, organizzando una presentazione alla mostra
            internazionale dei prodotti per l’ufficio, nell’ottobre del 1965
            a New York. 
            Poco
            dopo, a proposito della cessione della divisione elettronica alla
            General Electric, Perotto aggiungerà: ”Fu detto che
            l’operazione e la conseguente collaborazione con la G.E. sarebbe
            servita a riversare sull’Olivetti i frutti dei grandi laboratori
            di ricerca americani, che l’elettronica Olivetti non moriva e che
            in futuro ne avrebbe tratto dei giovamenti; ma tutti si resero conto
            che si trattava di una mistificazione. E più di tutti me ne resi
            conto io stesso che, avendo partecipato alle trattative e lavorando
            nei laboratori elettronici ceduti agli americani (dei quali potei
            saggiare l’arroganza e le loro intenzioni esclusivamente
            commerciali), ebbi l’occasione di conoscere le vere motivazioni
            dell’operazione. Per questo ebbi la malaugurata idea, da giovane
            ingenuo, di contestare la cessione, ottenendo il risultato di essere
            dagli americani restituito all’Olivetti, con la preghiera di
            togliermi di torno.” Così, Pier Giorgio Perotto torna in Olivetti
            e costituisce quel gruppo di progettisti a cui ho accennato sopra
            parlando del lettore ottico di caratteri. Il suo sogno e realizzare
            una linea completa di prodotti per l’ufficio basata su tecnologie
            elettroniche. Racconterà sempre Perotto: ”La cosa sembrava allora
            tanto più inverosimile e improbabile in quanto negli anni ’60
            esistevano solo grandi calcolatori, operanti in centri di calcolo
            ben lontani dal mondo degli uffici, e nessuna persona ragionevole
            pensava che si potessero fare delle macchine elettroniche di costo e
            dimensioni tali da stare sulla scrivania di un singolo individuo.
            Venni quindi confinato con qualche collaboratore in un piccolo
            laboratorio di Milano, in territorio ormai della G.E., perchè se
            agli americani ero inviso, il clima ad Ivrea, tempio della
            meccanica, non era molto migliore. Ma questa volta il gruppo di
            intervento, che aveva puntato tutto sul rilancio della meccanica, fu
            davvero sfortunato, perchè una piccola grande idea germogliò
            inaspettatamente nel mio laboratorio: quella del computer personale
            (anticipando di ben dieci anni i P.C. introdotti in America!).
            Non
            voglio qui raccontare le drammatiche vicende che portarono a questo
            risultato. Ma l’imbarazzo e l’indifferenza con cui il nuovo
            management accolse la notizia dell’imprevista epifania emersa
            dalle stive dell’azienda ebbero almeno il merito di portare a una
            timida ma positiva decisione: quella di esporre la nuova macchina,
            come puro modello dimostrativo, in una saletta riservata della
            mostra newyorchese. 
            Quello
            che non fece la strategia, lo fece il complesso di colpa legato alla
            cessione dell’elettronica e la voglia di far vedere che la
            Olivetti, in fondo, si, qualcosa di esplorativo con l’elettronica,
            pur non credendoci, faceva ancora. Quello che successe alla fiera fu
            però straordinario e sconvolgente: il pubblico americano capì
            perfettamente quello che il management dell’azienda non aveva
            capito, ossia il valore rivoluzionario della ”Programma 101”;
            trattò con assoluta indifferenza i prodotti meccanici esposti in
            pompa magna e si assiepò nella saletta per vedere quello che il
            nuovo prodotto era in grado di fare. La stampa, specializzata e non,
            segno con i suoi articoli entusiastici il successo di una
            presentazione e di un evento non voluto. In pratica, il nuovo
            computer fu letteralmente risucchiato dal mercato: si può dire che
            non fu venduto, fu solo comprato! ”La perottina” appare subito a
            tutti come un’autentica meraviglia tecnologica. Usa una scheda
            magnetica come dispositivo di ingresso/uscita da utilizzarsi anche
            come memoria di massa. Adotta un linguaggio di programmazione ”ad
            hoc”, studiato in funzione delle esigenze di ricercatori di tutte
            le discipline, anche di quelli molto lontani dal nuovo mondo
            dell’informatica. Nel meraviglioso gioiello spicca la perla della
            memoria a magnetostrizione, che Perotto ha voluto realizzare perchè
            i nuclei ferritici sarebbero stati troppo pesanti e ingombranti per
            quel tipo di macchina. Sfortunatamente, quella tecnologia sarà
            sconfitta dalle memorie a stato solido, di struttura più semplice
            della linea magnetostrittiva; tuttavia, a mio giudizio, quell’invenzione
            merita di essere ricordata come il simbolo di un livello scientifico
            di assoluta avanguardia mondiale. Il mondo accademico e il primo a
            impadronirsi del nuovo prodigioso strumento di lavoro che consente
            al singolo ricercatore di sviluppare autonomamente i programmi di
            cui ha bisogno e di mandarli in esecuzione senza l’intermediazione
            dei tecnici che disciplinavano e inevitabilmente condizionavano in
            quegli anni l’accesso alle risorse di calcolo. Ricordo che un
            anziano collega, il prof. Mario Boella, grandissimo ricercatore e
            sperimentatore operante in quel settore che si chiamava allora
            ”delle correnti deboli”, l’uomo a cui è stato dedicato il
            nuovo, importante istituto di ricerca nelle telecomunicazioni, lavorò
            un’intera settimana a tempo pieno per imparare tutti i segreti
            della macchina. 
            II
            Perotto-pensiero.
            Non
            mi soffermo oltre sull’importanza scientifica, tecnologica ed
            industriale del lavoro di Perotto, perché ben nota a molti e
            ampiamente ricordata negli articoli di questi giorni. E invece meno
            noto il contributo di pensiero da Lui portato, soprattutto negli
            ultimi anni, attraverso i libri e gli articoli, sull’importanza
            delle innovazioni, di Internet in particolare, sulle prospettive
            dello sviluppo industriale, sul nuovo scenario dei rapporti politici
            e sociali. Le sue riflessioni hanno il grande e raro pregio della
            non omogeneizzazione con i modelli socioeconomici standard di
            interpretazioee del mondo, e, a mio giudizio, rivelano una profondità
            e ampiezza di analisi che non si ritrovano in altre fonti, neppure
            nelle più qualificate. Per l’importanza di questi contributi
            intendo ritornare sull’argomento dopo una rilettura completa della
            sua opera bibliografica. Ho notato
            che una figura eccezionale di uomo, studioso, ricercatore, ingegnere
            avrebbe meritato di essere ricordata con ben altro risalto di quanto
            dato dai mass media nei giorni successivi alla sua scomparsa. 
            Abbiamo
            il dovere di evitare che quella figura finisca nel dimenticatoio,
            come è successo ai grandi ingegneri della Roma antica.